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Un contratto di affitto può vietare la presenza di cani e gatti? Una pronuncia fa chiarezza

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I limiti delle clausole sugli animali nei contratti di locazione

La convivenza tra uomini e animali domestici nei palazzi cittadini è una questione che scalda gli animi e riempie le aule dei tribunali. Una recente sentenza della Corte d’appello di Napoli, la numero 1254/2025, riportata da «il Sole 24 ore», getta nuova luce su un argomento che tocca migliaia di inquilini e proprietari: fino a che punto un contratto di affitto può impedire di tenere animali? E quando i disturbi causati da un quattrozampe giustificano la fine di un rapporto locativo? La pronuncia, con un equilibrio tra rigore giuridico e pragmatismo, offre risposte chiare, ma non prive di sfumature.

La validità delle clausole anti-animali nei contratti

Al centro del caso c’è una clausola contrattuale che vietava all’inquilino di ospitare animali in casa. La Corte partenopea ha stabilito che un simile divieto è perfettamente valido e non può essere considerato vessatorio. Secondo i giudici, questa restrizione non rientra tra quelle elencate dall’articolo 1341, comma 2, del Codice civile, che definisce le clausole considerate vessative.

Distinzione tra regolamenti condominiali e contratti privati

Inoltre, non contrasta con l’articolo 1138 del Codice civile, il quale impedisce ai regolamenti condominiali – ma non ai contratti di locazione – di proibire la presenza di animali da compagnia. A supporto di questa tesi, i giudici richiamano l’articolo 1322 del Codice civile, che garantisce piena libertà contrattuale, e una sentenza della Cassazione (la 3705/2011), che legittima i divieti sugli animali nei regolamenti contrattuali approvati all’unanimità dai condomini. In altre parole, chi firma un contratto di affitto con una clausola anti-animali è tenuto a rispettarla, senza poter invocare diritti generali a proprio favore.

I comportamenti dell’inquilina e i limiti della tolleranza

Tuttavia, la vicenda si complica quando si passa a valutare il comportamento dell’inquilina, accusata di aver violato il contratto. Il suo cane, infatti, avrebbe causato non pochi problemi: escrementi abbandonati sul balcone, cattivi odori che si spandavano nell’aria e continue lamentele dei vicini, esasperati dai disagi.

Questi episodi, secondo la Corte, rappresentano un comportamento scorretto e censurabile, ma non sufficiente a giustificare la risoluzione del contratto. I giudici hanno notato che il cane viveva nell’appartamento già al momento della firma del contratto, un dettaglio che suggerisce una certa tolleranza iniziale da parte del proprietario.

Inoltre, l’inquilina si è mostrata disponibile a mitigare i problemi, e le testimonianze raccolte risultavano contraddittorie, senza prove schiaccianti di un danno grave. Per questo, l’inadempimento è stato considerato di lieve entità, incapace di rompere l’equilibrio del rapporto contrattuale.La sentenza, con il suo bilanciamento tra diritti e doveri, invita a riflettere.

Da un lato, riconosce la libertà dei proprietari di imporre restrizioni sugli animali nei contratti di affitto; dall’altro, protegge gli inquilini da risoluzioni troppo drastiche, specie quando i problemi causati non raggiungono una soglia di gravità insostenibile. Un verdetto che offre una guida per navigare le complessità della vita condominiale, dove la passione per gli animali deve fare i conti con il rispetto per i vicini.

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